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mercoledì 26 febbraio 2014

1. LA PRIMAVERA ARABA E L'AUTUNNO ISLAMICO



La Primavera araba ha avuto inizio con i moti di rivolta in Tunisia alla fine del 2010 e in Egitto nei primi mesi del 2011; le turbative, qualificate con   l’omnicomprensiva e sintetica espressione di ‘Primavera araba’, si sono poi propagate con effetto domino in altri Paesi; in particolare, hanno principalmente riguardato sei Stati: la Tunisia, l’Egitto, lo Yemen, il Bahrain, la Siria e la Libia.  Manifestazioni antigovernative si tennero anche a Teheran, mentre in Marocco le  dimostrazioni ebbero un carattere prevalentemente pacifico. Allora cominciarono ad animarsi le prime proteste in Libia, premesse di quella guerra civile che determinerà la fine del regime di Gheddafi. In Arabia Saudita vennero presi provvedimenti restrittivi delle libertà a seguito del tentativo della minoranza sciita di organizzare tumulti. Nel frattempo scoppiò anche in Siria la rivolta che subito assunse un carattere particolarmente drammatico a seguito della dura reazione del governo di Assad; l’esercito rimase fedele al regime e si dimostrò ben presto pronto a sparare sui civili pur di ristabilire l’ordine. Gli accadimenti in Siria vennero attentamente seguiti dall’Iran, che condivide con il regime di Damasco importanti interessi geopolitici.  Queste rivolte all’inizio ebbero un carattere spiccatamente laico: i manifestanti  non scesero in piazza in nome dell´Islam e per il ripristino di un califfato islamico come auspicava la propaganda qaedista, ma furono spinti alle proteste  prevalentemente da situazioni nazionali interne, caratterizzate da ingiustizia sociale, mancanza di democrazia e da un’iniqua intollerabile distribuzione delle ricchezze.   Gli slogan non inneggiarono contro un occidente ‘corrotto’ e ‘corruttore’, come avvenne in precedenti rivoluzioni islamiche, in particolare quella iraniana del 1979 nel corso della quale furono frequenti le proteste anti-americane e anti-israeliane, che accreditarono l’immagine di un mondo musulmano compatto nell’essere contrapposto all’occidente. È significativo che i rivoltosi, durante i moti della Primavera araba, abbiano inneggiato alla libertà. In proposito, il concetto di libertà nella tradizione araba è di recente acquisizione, in quanto storicamente l’aspirazione di questi popoli è sempre stata prevalentemente la sola giustizia.  Infatti, l’organizzazione tribale che è alla base delle società arabe implica l’accettazione, come realtà ineludibile,  di un potere superiore a cui ci si sottopone, ma dal quale si pretende l’esercizio di ogni potestà secondo equità. Inoltre,  gli Stati arabi non hanno elaborato nel tempo una struttura amministrativa decentrata; conseguentemente il potere centrale, per poter governare, doveva garantirsi l’appoggio delle comunità stanziate su specifici territori.  In questo ambito di impronta tribale, gli arabi accettavano che il potere non fosse esercitato democraticamente, ma pretendevano che si amministrasse secondo giustizia. Questa caratteristica era molto evidente nella Libia di Gheddafi.  Il carattere spiccatamente laico della Primavera araba ha anche impedito che si desse credito alla tesi che queste rivolte fossero animate da emissari di Al  Qaeda.  Durante questi eventi, infatti, gruppi terroristici hanno cercato di inserirsi nelle situazioni locali nazionali per riacquistare, senza riuscirvi, un ruolo primario. Al Qaeda sembrò essere sempre più isolata, e con crescente chiarezza cominciò ad evidenziarsi che questo movimento terroristico non costituiva un volto dell´Islam.  In passato i cambiamenti di regime o le rivoluzioni interne si erano avuti a seguito di iniziative di gruppi eversivi, in qualche caso con l’ausilio esterno di altri Stati. Si era così consolidata nei popoli arabi la consapevolezza che essi potessero solo tollerare i propri governi nazionali generalmente ‘autoritari’, mentre soltanto l’attività terroristica poteva offrire prospettive concrete di cambiamento. Così la Primavera araba ha tolto al terrorismo questo ruolo.  Nella creazione di un nuovo Stato sono prioritari la formazione di un’assemblea costituente e l’indizione di libere elezioni. Tuttavia questo assunto, nel suo sviluppo pratico rimase intrappolato in un circolo vizioso; le elezioni non sono il momento iniziale di una democrazia, ma il punto di arrivo, in quanto il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato democratico ed una ben formata coscienza civica, che necessita di anni per consolidarsi.  In questi Paesi, mentre i giornali e le televisioni si mantennero espressione di poteri governativi, Internet sfuggì ad ogni controllo e fu uno strumento per la diffusione mediatica delle idee di cambiamento e la concreta organizzazione delle manifestazioni. La Rete fu l’unico strumento in grado di assicurare all’interno e all’esterno dei rispettivi confini nazionali un’adeguata libertà di informazione.   Fu subito evidente la rilevanza dei contatti tenuti dai manifestanti attraverso Internet, intrapresi non solo per fini organizzativi, ma anche come strumento per condividere immagini e filmati, e per far conoscere all’estero le evoluzioni delle situazioni nazionali generalmente segnate dal disperato ma risoluto tentativo dei regimi al potere di reprimere ogni contestazione. Così un attivista sintetizzò lo sfruttamento delle potenzialità della Rete: "Usiamo Facebook per programmare le manifestazioni, Twitter per coordinarci, Youtube per parlare al mondo".  In questo periodo svolse un ruolo politico anche la Lega Araba soprattutto in relazione alla situazione siriana.  La Lega Araba, fin dalla sua costituzione, non ha mai avuto una funzione di particolare rilevanza in quanto, di fronte all’assenza di qualsiasi coesione tra i Paesi arabi, non si è mai sentita legittimata ad esercitare una leadership e soprattutto un ruolo  guida super partes.  In generale, i Paesi nei quali si sono avuti profondi cambiamenti politici a seguito della Primavera araba hanno subito una neoislamizzazione che ha contribuito ad affermare regimi non particolarmente diversi da quelli pregressi. Si può tentare unaspiegazione: i popoli arabi, nel richiedere diritti di libertà, non potevano avere come modello l’instaurazione di ordinamenti ispirati alle democrazie occidentali, da sempre considerate corrotte e lontane da valori spirituali e religiosi.  Il  nuovo Stato, pertanto, non poteva che essere fondato su una piena applicazione dei valori dell’Islam, considerati  gli unici in grado di assicurare uno Stato perfetto, oltre che giusto. Così, la Primavera araba, pur essendosi originata da movimenti laici, è approdata ad esiti fondamentalisti, ad un autunno islamico.
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2. LIBANO E SIRIA, DUE DIVERSI ASPETTI DELL’INSTABILITÀ POLITICA MEDIORIENTALE: 1. LA SIRIA



“La democrazia è un prodotto della cultura occidentale e non può essere applicata per il Medio Oriente, che ha un diverso background culturale, religioso, sociologico e storico”. Questa frase, pronunciata dal leader politico turco Erdogan, pur non sancendo, come lo stesso Primo Ministro turco precisò successivamente, un’inconciliabilità fra la cultura islamica e le forme di governo democratiche, tuttavia sottolinea che le peculiarità delle realtà geopolitiche del vicino oriente non possono essere comprese attraverso un’applicazione dei parametri occidentali. In proposito, la lettura delle vicende attuali dello scenario mediorientale non può prescindere dall’esame della genesi dei singoli Stati e dalle loro successive contingenze storiche. In altri termini, come spesso accade, un contributo utile alla comprensione di situazioni politiche proviene dall’esame di quello che è successo in passato. Al riguardo, l’instabilità che caratterizza questa regione ha sicuramente una prima causa nella ripartizione dei territori fra gli Stati al momento della loro costituzione; la connotazione territoriale di questi Stati fu infatti un’invenzione della politica piuttosto che il risultato di un accorpamento di zone affini per motivi etnici, politici e amministrativi. In particolare, in linea di massima, non vi fu coincidenza fra la configurazione amministrativa dell’impero ottomano in questa regione, e i confini degli Stati mediorientali definiti dagli accordi internazionali.  La Siria fu il risultato di un compromesso politico fra due potenze coloniali, la Francia e il Regno Unito, che procedettero ad una globale distribuzione delle aree del levante arabo che fino a quel momento, il 1914, erano state formalmente componenti dell’impero ottomano. Oggetto di un mandato francese fino al 1945, la Siria raggiunse l’indipendenza nel 1946, nascendo con una configurazione territoriale ridotta rispetto alla dimensione politica e amministrativa pregressa, cioè quella che aveva come regione dell’impero ottomano.  Alcune zone della Siria ottomana oggi sono parte dei territori della Giordania e del Libano, mentre ad oriente furono attribuite al nuovo Stato siriano zone precedentemente sotto l’influenza irachena. Nel ‘46 in Siria si instaurò un regime dittatoriale. Il Paese attraversò per alcuni decenni momenti di instabilità politica; poi nel ‘70 si impadronì del potere Hafiz Al Assad, esponente del partito Bath, di ispirazione socialista. La dittatura di Hafiz Al Assad, pur non essendo particolarmente diversa da quella del suo successore, il figlio Bashar Al Assad, tuttavia godette di un maggiore consenso. Vi fu continuità fra i regimi degli Assad: entrambi erano fondati su un rigido controllo della popolazione, sulla repressione di qualsiasi accenno di moto contrario, e su medesimi criteri nella gestione del potere, amministrato in maniera personalistica. Peraltro, la dinastia Assad, essendo di estrazione alawita (gli Alawiti sono un gruppo religioso del ramo sciita dell’Islam), è espressione di una minoranza poiché la popolazione siriana è in prevalenza sunnita. Il termine alawiti, significa seguaci di Alì, cognato e cugino del profeta Maometto e padre del giovane Hussein, ucciso nella battaglia di Kerbala. Gli Alawiti, che sostengono di essere sciiti duodecimani, vivono in tutte le grandi città della Siria e sono 2 milioni circa (il 20% della popolazione). Dopo le prime manifestazioni nel 2011 il regime di Bashar Al Assad ha intrapreso apertamente la via della repressione, con una conseguente drastica riduzione del consenso popolare soprattutto nelle regioni lontane dalla capitale, non solo geograficamente ma anche politicamente, divenute particolarmente ostili al regime essendo penalizzate da una gestione del potere che privilegiava altre aree del Paese con l’attribuzione di benefici anche attraverso le attività di ONG di fatto influenzate dalle scelte della moglie del dittatore. Nelle attività di repressione anche la tecnologia ha svolto e continua a svolgere un ruolo importante: dopo essere stati promossi, anche con slogan, l’apprendimento e l’uso dell’inglese e di Internet, fu intrapreso un controllo capillare dell’informazione e della Rete. Il mondo occidentale ha difficoltà a conoscere e a raccontare le attuali vicende siriane, non solo per le specifiche attenzioni di cui è destinataria la stampa estera e nazionale, ma per la difficoltà di visitare i versanti in mano ai ribelli, che sono per gli occidentali ad altissimo rischio di rapimenti. La Siria ha una grande importanza strategica per l’Iran. L’Iran, infatti, pur essendo la maggiore potenza islamica, soffre una condizione di isolamento dovuta all’assoluta prevalenza del credo sciita, che è la religione ufficiale.  In Iran gli Sciiti sono il 95% della popolazione, mentre il rimanente 5% è sunnita. Diversamente nel cosmo islamico i Sunniti sono il 90% circa, mentre i seguaci dello Sciismo sono il 10% circa. Gli altri Stati arabi mediorientali, essendo di confessione sunnita, hanno come polo di riferimento politico e religioso l’Arabia Saudita, potenza egemone dell’area insieme all’Egitto. Per questo l’alleanza con la Siria, il cui sovrano Bashar al Assad, come si è detto, è alawita e quindi sciita, per l’Iran ha particolare importanza, in quanto è l’unico modo per il Paese persiano di essere presente e attivo  nello scenario mediorientale. L’Iran sostiene Assad, ma, nella malaugurata ipotesi della sua caduta o ritiro, è pronto ad un’eventuale transizione che gli sia favorevole e che gli consenta di proteggere i propri interessi nell’area, anche contando su una rete di milizie fedeli di stanza in Siria.



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3. LIBANO E SIRIA, DUE DIVERSI ASPETTI DELL’INSTABILITÀ POLITICA MEDIORIENTALE - 2. IL LIBANO



Con la crisi siriana è cresciuta l’importanza strategica degli appartenenti al gruppo Hezbollah, un movimento fondamentalista islamico libanese di fede sciita, alleato dell’Iran, che ha sede nel Libano. Gli Hezbollah - il termine significa in arabo Partito di Dio - sono strutturati come un partito politico, ma sono dotati di un’ala militare; nacquero nel 1982 come milizia armata per contrastare l’invasione israeliana del Libano. Il partito Hezbollah svolge una funzione filantropica finanziando servizi sociali, come scuole e ospedali; esercita una particolare influenza politica e amministrativa soprattutto nella parte meridionale del Paese. Gli Hezbollah sono considerati da Stati Uniti, Egitto, Israele, Australia e Canada un’organizzazione terroristica. Il Parlamento Europeo ha adottato il 10 marzo 2005 una Risoluzione, non vincolante, che di fatto accusa Hezbollah di aver condotto attività terroriste. A fine luglio del 2012 i Ministri degli Affari Esteri dei Paesi dell’Unione Europea hanno raggiunto un accordo per l'iscrizione dell'ala militare del movimento nella lista dei gruppi che sono riconosciuti come controllati direttamente o indirettamente da persone coinvolte in iniziative terroristiche. Alcuni Paesi, come il Regno Unito e i Paesi Bassi, avrebbero voluto che la decisione fosse adottata non solo limitatamente all’ala militare del movimento. È prevalsa una linea più moderata, cha ha escluso dal provvedimento la parte dell’organizzazione che pacificamente svolge un ruolo politico nella vita del Libano. Nella crisi siriana la milizia Hezbollah, in ­­­­relazione alla sua collocazione politica corollario della fede sciita, finanziata dall’Iran combatte al fianco del regime di Assad. Il Libano fu una totale invenzione dei francesi che, successivamente alla dissoluzione dell’Impero Ottomano, associando i territori prossimi alla comunità maronita del Monte Libano, vollero stabilire uno Stato intorno alla città di Beirut, centro marittimo di grande importanza commerciale. Il Libano, essendo nato dall’unione di zone eterogenee, è sempre stato politicamente e militarmente debole, e ha spesso costituito lo scenario nel quale si sono consumate fasi di conflitti fra altri Stati. Anche il conflitto siriano attualmente sconfina nei territori libanesi. La Siria, in proposito, permeata da uno spirito nazionalista, ha sempre rivendicato di fatto un’egemonia sul Libano non riconoscendone l’autonomia, poichè il Libano è in parte costituito da zone in origine legate amministrativamente alla Siria ottomana. Nonostante la sua esiguità territoriale e la sua fragilità politica, la stampa internazionale e l’opinione pubblica hanno sempre avuto un particolare interesse per il Libano. Questa attenzione trova fondamento nella sua alchimia socio-religiosa, così definisce questa caratteristica della nazione libanese Andrea Riccardi in un suo scritto. Questa alchimia socio-religiosa è costituita dalla convivenza di diverse identità religiose, tutte integrate nel tessuto sociale e consapevoli della loro reciproca necessità. Un famoso ayatollah libanese amava ripetere: “Non c’è Libano senza i suoi cristiani, non c’è Libano senza i suoi musulmani”. L’attuale realtà libanese è anche l’esito della guerra civile che si svolse nel Paese dal 1975 al 1989, che ha visto contrapposte milizie divise su base confessionale e che ha comportato la distruzione di buona parte di Beirut devastando il Paese. Il conflitto si concluse con gli accordi di Taif in Arabia Saudita, nel 1989. Nel Libano multiconfessionale la comunità cristiana è completamente integrata nella società; questa caratteristica, pur confrontandosi costantemente con difficoltà e contraddizioni, può essere un modello per una auspicata futura evoluzione della società musulmana verso formule interreligiose. Nel Libano vivono anche circa 100 mila Alawiti. La comunità cristiana può svolgere un importante ruolo, anche di mediazione, nei contrasti fra Sunniti e Sciiti, in quanto i cristiani non sono un elemento estraneo, ma sono perfettamente integrati nella realtà araba. Attualmente il Libano vive un’emergenza sociale dovuta all’afflusso di profughi provenienti dalla vicina Siria. Il modello libanese può ambiziosamente indicare che un obiettivo possibile dell’evoluzione della società musulmana, prospettato dalle speranzedella Primavera Araba nelle prime fasi del suo avvio, non consiste solo nella fine delle ostilità, o nella sanzione di garanzie costituzionali, o nella creazione di sistemi politici formalmente democratici, ma nel superamento della concezione dello Stato confessionale. Il nuovo Stato mediorientale deve infatti fondarsi su una aggiornata e nuova coscienza sociale, politica e religiosa, che favorisca la definizione di una via araba alla democrazia, mediante la costituzione di “una società del vivere insieme”, come la definisce il noto intellettuale e politico libanese cristiano-maronita Samir Frangieh.

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4. L'EGITTO, DALLA PRIMAVERA ARABA ALL’AUTUNNO ISLAMICO - Prima Parte



La Storia ha spesso dimostrato che tutto quello che avviene in Egitto successivamente si diffonde nel resto del mondo arabo: effettivamente la Rivoluzione egiziana di questo ultimo biennio è stata la punta avanzata di una crisi che sta attraversando tutto il mondo islamico, che ha avuto inizio con la Primavera araba. La Primavera Egiziana infatti è parte di quella più generale Primavera i cui moti di rivolta, di carattere inizialmente laico, iniziati in Tunisia alla fine del 2010, sono proseguiti in Egitto nei primi mesi del 2011, propagandosi poi con effetto domino in altri Paesi Arabi. La Primavera egiziana è sembrata giungere inattesa: in realtà non avrebbe dovuto sorprenderci, anche se un atavico e fisiologico fermento sociale che ha sempre permeato il mondo arabo, appariva costantemente frenato da un immobilismo politico, prodotto da una diffusa rassegnazione della gente a subire, come una condizione inevitabile, grandi discriminazioni sociali e sistemi giudiziari caratterizzati dall’arbitrio. Tuttavia negli ultimi tempi stava crescendo la sensibilità nei confronti della necessità di una trasformazione della società in senso pluralista e democratico. Questo emerse in maniera evidente in questi moti, che ebbero moventi inizialmente laici, che possono essere sinteticamente riassunti nel diffuso malessere per una società cristallizzata su posizioni antidemocratiche e caratterizzata da una inaccettabile diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. Pertanto i manifestanti all’inizio non scesero in strada in nome dell´Islam, ma i loro slogan inneggiavano ai valori universali della dignità, della giustizia e della libertà. Sono mancate conseguentemente quelle manifestazioni anti-occidentali (soprattutto anti-americane e anti-israeliane) emerse in precedenti rivoluzioni islamiche, che avevano accreditato l’immagine di un mondo musulmano compatto nell’essere contrapposto all’occidente. E’ difficile ipotizzare il futuro dell’Egitto, il cui scenario è caratterizzato da componenti contrapposte, e, in particolare, dai militari, da sempre molto influenti nei momenti cruciali del Paese, dai Fondamentalisti islamici e dal blocco laico. Nessuno di questi schieramenti ha avuto la forza per prevalere sugli altri e determinare nel Paese una svolta in grado di farlo uscire dalla profonda crisi economica e istituzionale. A rendere più complessa la situazione contribuisce la divisione interna fra gli stessi islamici: alla fazione salafita, più integralista, si contrappone quella relativamente più moderata, rappresentata dai Fratelli Musulmani. Archiviato il regime autocratico e corrotto di Mubarak, che aveva afflitto la popolazione con povertà, soprusi e disoccupazione, i militari, dopo le dimissioni repentine del raìs, hanno inizialmente mostrato l’aspetto di un potere garante delle nuove istanze di democraticità, progresso, libertà e giustizia, che la classe media emergente reclamava nelle manifestazioni di piazza; poi hanno intrapreso una politica autoritaria, rivelando il loro vero volto. Le Forze Armate hanno cominciato a reprimere le proteste sottoponendo inoltre a giudizio davanti a tribunali migliaia di oppositori: contemporaneamente è sembrato che le parti laiche, che avevano animato la Rivoluzione, progressivamente uscissero di scena, cedendo il passo a quelle istanze fondamentaliste che hanno costituito il presupposto per l’ascesa del presidente Morsi, il quale, dopo aver dichiarato di voler essere il presidente di tutti gli egiziani, su probabili pressioni della Fratellanza Musulmana ha conferito al suo governo un’impronta sempre più fondamentalista. Morsi, primo presidente civile e islamico dell'Egitto democraticamente eletto, dando una svolta autoritaria al suo regime con l’auto-attribuzione di poteri che conferivano una particolare forza alle sue iniziative istituzionali e lo rendevano immune da controlli giurisdizionali, ha rapidamente cancellato la propria legittimità: eletto democraticamente, non è riuscito a governare democraticamente. La reazione della componente laica, risvegliata dalla svolta autoritaria del Regime, ha contribuito a spingere l’esercito verso la destituzione di Morsi, un vero golpe se si considera che il Presidente aveva conseguito questa carica a seguito di libere elezioni. I manifestanti, per evitare di essere delegittimati dal dilagante clima integralista, hanno ritenuto opportuno precisare nel corso delle manifestazioni di piazza di essere rivoluzionari e non infedeli. Il Paese continua ad essere spaccato tra la componente laica e la componente fondamentalista, mentre l’esercito, sempre ambiguo nelle sue scelte, ha la forza per imporre dei cambi di rotta che tuttavia sembrano finalizzati esclusivamente alla protezione dei privilegi della casta militare. L’Unione Europea in questa crisi ha sempre svolto un ruolo debole, con posizioni interlocutorie e prudenti, forse preordinate al malcelato fine di non incidere su equilibri sui quali trovano fondamento gli interessi che singoli Stati hanno nel Paese. Nel mondo arabo la sponda fondamentalista islamica egiziana trova un sostegno nella solidarietà dell’Arabia Saudita, mentre il Qatar sembra capofila di un appoggio esterno alla parte islamica moderata. 


 (continua con la seconda parte la prossima settimana)  

5. L'EGITTO, DALLA PRIMAVERA ARABA ALL’AUTUNNO ISLAMICO - Seconda Parte



Dopo che i Militari presero il potere, sembrò opportuno che in quel delicato momento le forze al potere, al fine di stroncare l’opposizione fondamentalista islamica, non cedessero alla tentazione di mettere fuorilegge la Fratellanza Musulmana, che lottava per il ritorno di Morsi. Infatti, nonostante il potere fosse tornato nelle mani dei Militari, i Fratelli Musulmani mantenevano il loro ascendente su parte della popolazione, e conservavano la loro sfera di influenza su istituzioni sociali, costruita in molti decenni investendo in attività filantropiche. I Militari decisero di mettere al bando la Fratellanza Musulmana. Questa iniziativa aveva le potenzialità per cancellare la fragile demarcazione fra fondamentalismo e terrorismo, spingendo le frange estreme della Fratellanza verso una deriva terroristica, che poteva - e può - trascinare il Paese verso una guerra civile, simile a quella che insanguinò l’Algeria, dove la vanificazione da parte dei militari dei risultati delle elezioni al fine di evitare che il Paese cadesse in mano agli islamici, ebbe conseguenze tragiche, causando quasi un decennio di cruenta guerra civile le cui vittime forse furono più di duecentomila. Paradossalmente la componente islamica Salafita invece sembrò vicina all’esercito, avendo apprezzato particolarmente la rimozione di Morsi e il conferimento dell’incarico a Mansur, ritenendo che l’Egitto avesse bisogno di un nuovo leader. In Egitto nemmeno il fronte islamico è compatto. La scissione fra Salafiti e Fratelli Musulmani riflette una diversa posizione che va oltre i confini dell’Egitto, in quanto sia i Fratelli musulmani, sia il partito Al Nur di matrice salafita hanno protettori stranieri. La Fratellanza Musulmana è sostenuta dal Qatar, che tuttavia negli ultimi tempi, anche a seguito di mutamenti politici interni, ha diminuito la sua influenza esterna; i Salafiti invece sono protetti dall’Arabia Saudita, dove il Wahabismo, che propone una visione radicale ed estremizzata dell’Islam, è l'ideologia dominante. In tutti i Paesi interessati dalla Primavera araba il Qatar ha sostenuto le filiali nazionali dei Fratelli Musulmani e i movimenti islamisti moderati, come il partito Al Nahda in Tunisia.Il Qatar e l’Arabia Saudita forniscono ai loro protetti aiuti finanziari, politici e diplomatici. Al Jazeera, il canale televisivo del Qatar, ha prestato ogni possibile appoggio al governo di Morsi: conseguentemente, dopo la destituzione del Presidente esponente della Fratellanza, in Egitto le sue trasmissioni sono state vietate e la sede del canale televisivo ha subito perquisizioni e arresti.L’Egitto non è il solo campo nel quale si contendono una possibile influenza politica e religiosa le due monarchie leader del mondo arabo, quella del Qatar e quella dell’Arabia Saudita. Dopo il rovesciamento del regime di Gheddafi, il Qatar e l’Arabia Saudita hanno iniziato la lotta in Africa per appropriarsi dei progetti legati agli esiti della crisi libica. In Etiopia invece i Salafiti subirono molte defezioni: conseguentemente l’Arabia Saudita ridimensionò le sue mire in quel territorio, mentre in maniera simmetricamente opposta il Qatar ha incrementato le sue attività. In conclusione, gli esiti della rivoluzione egiziana sono emblematici di come i moti della Primavera araba, che hanno avuto all’inizio una matrice laica, abbiano progressivamente virato con l'ascesa dei Fratelli Musulmani verso esiti fondamentalisti, determinando una reviviscenza dell’integralismo islamico. Nel corso di questi tumulti per la prima volta in quel contesto geopolitico sono stati richiesti sistemi politici che, oltre a governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia, quasi a reclamare l’avvento di quell’Illuminismo che ha segnato così profondamente l’occidente e che è mancato nella storia dei popoli arabi. Con il potere nelle mani dei militari, si è cercato di estromettere la componente islamica, quella più radicale dei Salafiti e quella più moderata dei Fratelli Musulmani. Tuttavia, il Paese continua a vivere una condizione di divisione interna e di contrasti. La pacificazione e l'ordine sociale sono ancora lontani.

(fine)